IL CASINO DELL’AURORA
Visita a piedi del 1° Marzo 2015
Scritto da Bruno De Angelis
Il ”Casino dell’Aurora”sorge all’interno del palazzo Pallavicini – Rospigliosi, sul Monte Cavallo, nell’area prospiciente le Scuderie del Quirinale, e deve il suo nome al famoso affresco dipinto sul soffitto da Guido Reni.
Siamo andati a visitarlo il 1° Marzo in quanto il luogo, di proprietà ancora della famiglia, è visitabile soltanto il primo giorno di ogni mese.
Parliamo prima un poco del palazzo e delle famiglie che gli hanno dato il nome:
il palazzo sorge sull’area occupata, ai tempi dell’antica Roma, dalle “Terme di Costantino”, i cui resti sono ancora presenti negli scantinati delle costruzioni. Purtroppo, essendo tutta l’area privata, non è possibile visitare i ruderi, così come non sono visitabili gli ambienti interni e la quadreria, come meglio diremo in seguito.
La costruzione del palazzo fu commissionata dal cardinale Scipione Borghese all’inizio del 1600; i lavori furono affidati a Flaminio Ponzio e successivamente all’arch. Carlo Maderno; il giardino fu invece progettato da Giovanni Vasanzio; tutti nomi di alta levatura.
Dopo vari passaggi di proprietà, il palazzo fu acquistato, nel 1704, dal principe Giovanni Battista Rospigliosi e dalla moglie Maria Camilla Pallavicini.
La famigia Pallavicini romana proviene dal ramo genovese della famiglia; Lazzaro Pallavicini, “fiutando il vento” che portava a Roma, vi si trasferì attorno al 1630 e venne successivamente eletto cardinale nel 1669. Appassionato collezionista, mise presto assieme una notevole collezione di quadri, che ancora si trova, in parte, all’interno del palazzo.
L’altro ramo dei Pallavicini era emiliano: a Busseto c’è una villa Pallavicini, sede del “Museo Verdiano”.
Tralasciamo i dettagli delle vite degli eredi delle due famiglie ad arriviamo ai giorni nostri: all’inizio del 1900, la famiglia Rospigliosi, proprietaria dei terreni di Maccarese, decise di bonificare l’area paludosa per ricavarne terreni agricoli ma, purtroppo per loro, il governo negli stessi anni varò la riforma agraria, eliminando la “mezzadria” e quindi causando il crollo del valore commerciale dei terreni stessi. La famiglia si ritrovò sull’orlo della bancarotta, e fu costretta a vendere, oltre alla stessa area di Maccarese, i possedimenti di Zagarolo, parte della pinacoteca e la metà del palazzo di cui ci stiamo interessando, in particolare l’ala destra (quella verso Via Nazionale). Questa ala è ancora oggi sede di varie società finanziarie e studi legali.
Per inciso, le opere di bonifica sembrano non portare fortuna ai nobili del tempo: basti pensare alla altrettanto disastrosa bonifica del lago nella piana del Fucino, a Campobasso, voluta dai Torlonia (si dice che il principe abbia detto “o io prosciugo il lago, o lui prosciuga me”).
Tornando al palazzo, l’ala centrale, pari a circa il 50% dell’intero paazzo, è invece ancora di proprietà della famiglia (l’ala restante è comunque costituita da oltre 100 ambienti!); gli eredi vivono in alcuni degli appartamenti, mentre altre abitazioni sono date in affitto.
I saloni di rappresentanza sono invece noleggiati per eventi, mostre, etc.
Il “Casino dell’Aurora” è anch’esso di proprietà della famiglia e viene noleggiato per ricevimenti ed incontri di alto livello.
Nel casino ci sono anche i quadri rimasti di proprietà della famiglia, dopo la disastrosa vendita di gran parte della collezione negli anni 30-40 del 900. Questa pinacoteca residua non è visitabile.
Ci sono poi altri affreschi, visibili nel salone, opera di Cherubino Alberti, Paolo Bril, Antonio Tempesta, oltre a statue, ma chiaramente l’opera dal Reni mette tutto il resto in secondo piano.
Un accenno a Guido Reni:
nasce a Bologna nel 1575 e ivi si spegne nel 1642.
Pittore ed incisore molto apprezzato ai suoi tempi, dopo una breve frequentazione della scuola di musica, voluta dal padre, iniziò la carriera nella bottega bolognese del Fiammingo Denijs Calvaert, poi alla scuola del Carracci.
Viene a Roma all’inizio del 1600, ma entra presto in contrasto con l’amministrazione papale;
realizza numerose e notevoli opere a Loreto, Bologna, Mantova, Napoli (sua la decorazione della cappella del tesoro di San Gennaro); soltanto nel 1613, tornato a Roma, realizza il dipinto dell’Aurora.
Negli ultimi anni si dice che cadesse in povertà, sommerso dai debiti, forse causati da una moglie spendacciona (?) e quindi costretto ad accettare commesse di poco conto.
Le sue opere sono state oggetto, specie in tempi più recenti, di considerazioni spesso negative da parte dalla critica,
in particolare il suo intento di emulare Raffaello, secondo i critici, ha reso l’opera di Reni troppo controllata, poco spontanea; giudicato quindi un imitatore, non in grado di produrre spontaneamente grandi opere.
Ma, sorvolando sulle critiche, veniamo all’affresco dell’Aurora:
vi sono rappresentati l’Aurora che precede il carro del sole (il giorno pieno), guidato da Apollo, trainato da quattro cavalli, e circondato da fanciulle (le ore del giorno), il tutto avvolto da una luce calda, quella, appunto, del giorno pieno (l’allegoria dei quattro cavalli ricorre in molte dottrine, in particolare nelle religioni indiane).
L’Aurora è preceduta da un fanciullo con una torcia (il crepuscolo o la stella del mattino).
Da notare l’oscurità della notte, che viene ricacciata dall’Aurora verso il bordo destro del quadro.
Ma lo spettatore sorvola quasi subito sulla interpretazione, del resto immediata, per restare invece colpito dai colori molto marcati, quali il verde acido e l’azzurro sfumato delle vesti delle fanciulle in contrasto con il blu intenso del mare sullo sfondo.
Questi sono i colori che caratterizzano praticamente tutta la produzione del Reni, lodati e criticati nello stesso tempo, sicuramente troppo all’avanguardia per il Barocco imperante all’epoca.